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Bill Evans Trio – Sunday at the Village Vanguard

Il Jazz è un qualcosa di indefinito ed indefinibile che coinvolge, affascina, penetra.

Si reinventa e si rigenera spesso senza alcun preavviso e/o apparente ragione, regalando la sensazione che possa riscrivere le proprie regole di gioco con imbarazzante facilità.

Non è propriamente così, anche se alcune sessioni finiscono per essere, giocoforza, decisive per una catalogazione storica di ciò che rappresenta il bello/il brutto/la norma e ciò che è Storia, Mito, Capolavoro.

Sunday at the Village Vanguard rientra sicuramente nella seconda parte della questione.

Bill Evans Trio - Sunday at the Village Vanguard

Siamo nel 1961, in una fase calda e qualitativamente importante per il genere.

Bill Evans ha da poco superato la trentina ed è considerato già un Top: un paio di anni prima ha contribuito a firmare un must come Kind of Blue di Miles Davis, praticamente una formazione del Resto del Mondo di calcistica memoria con i migliori interpreti della materia messi uno accanto all’altro ed un prodotto che, di conseguenza, è tecnicamente perfetto.

E’ un artista eclettico, Evans: ricco di talento, curioso, sperimentatore, innovatore.

Ha un carattere fragile e sensibile che la vita, come da copione, finirà per punire con immane crudeltà.

Un perdente di successo, ancora uno.

Che vince ogni volta in cui uno stronzone qualunque, uno come me o come tanti altri, si perde nei meandri di un viaggio infinitamente profondo, anzi: semplicemente profondo, ossimoro di chi ha la grandezza insita nel cuore e non nel biglietto da visita o nella dialettica.

Oltre, molto oltre.

Possiede una formazione multiforme, con studi classici ed un laboratorio culturale sempre pronto ad inglobare nuovi input ed ampliare il proprio bagaglio musicale spingendosi, non di rado, oltre la soglia fino a quel momento consentita ed accettata.

Questa sua capacità di rischiare ed inventare ha fatto sì che dopo aver collaborato con un genio come Miles, Bill avvertisse il bisogno di dedicarsi a qualcosa di strettamente personale, di unico, di innovativo, appunto.

Con umiltà e coraggio, binomio raro e fiabesco.

Il Village Vanguard è uno storico club newyorkese dove Evans ottiene un lauto ingaggio di due settimane per intrattenere un pubblico competente ed appassionato.

Il suo trio è composto da altri due virtuosi, il batterista Paul Motian ed il bassista Scott LaFaro.

Quest’ultimo perderà la vita pochi giorni dopo le registrazioni in oggetto, facendo sprofondare Evans in una profonda crisi esistenziale, col desiderio di lasciare la musica e la droga che è già in rampa di lancio, pronta a prenderne il posto definitivamente.

Per fortuna non andrà proprio così.

Quantunque non andrà nemmeno del tutto differentemente., purtroppo

La perdita di Scott sarà devastante per Bill e per il mondo del Jazz: nessun bassista, alla sua età e con pochi album alle spalle, riuscirà successivamente ad essere altrettanto decisivo e seminale.

Lo stesso Motian è artista di razza e il Trio, grazie all’ispirazione e all’organizzazione del boss, finisce per suonare in maniera divina, senza cali di tensione, ad un livello sublime e compartecipando tutti i protagonisti alla stregua di un corpo unico e compatto, cosa impensabile sino ad allora, in quanto era abituale l’idea del pianista messo al centro della scena e gli altri componenti del gruppo ad accompagnare lo show del piano con saltuari ed evanescenti strappi sonori.

La registrazione dal vivo presenta aspetti interessanti ed innovativi, tanto per cambiare: difatti ai tempi non era frequente l’abitudine di lavorare live sulla produzione che risulta però molto curata e divertente anche nello svolgimento delle sessioni, quando in sottofondo è possibile ascoltare reali interventi della platea che nulla tolgono alla grandezza dell’opera, peraltro utilizzata per realizzare l’album gemello, Waltz For Debb, pure meritevole di lode.

Un lavoro da “sentire” con l’anima, prima che con i sensi classici.

Omogeneo eppure improvvisato, malinconico ma comunque vivace, dinamico e simbiotico in una maniera elegante, raffinata, coinvolgente.

Un album di rara bellezza emotiva.


I pezzi che lo compongono sono autentiche gemme che, a parer mio, rifuggono un commento specifico ma vanno semplicemente godute, rigorosamente in vinile -quantunque decenni dopo sia stata data alle stampe una intrigante versione in CD con aggiunte di indiscutibile valore- o, se in viaggio, in cuffia con strumentazione più tecnologica, come ovvio che sia.

Ammirevole la succitata capacità di Evans di far gruppo, un vero leader che premia la straordinaria grandezza dei suoi compagni e ne valorizza perfettamente l’enorme cifra artistica.

Disco che emana spessore umano e che vola alto, ben oltre la musica, sfiorando la perfezione stilistica e superando di gran lunga le aspettative di chi ebbe la fortuna immane di goderselo dal vivo, di chi ha avuto l’enorme fortuna di poterlo ascoltare nel silenzio più totale e di chi avrà la notevole fortuna di ritrovarselo tra le mani con nelle vicinanze un piatto giradischi collegato all’impianto elettrico e la bolletta del mese precedente già pagata.


Una discografia sterminata, quella di Evans: oltre una cinquantina di album, la maggior parte dei quali degni di nota.

Questo, per me, è il primo da metter su in una ipotetica graduatoria di merito ed in onore di una carriera straordinaria, per un uomo che ha collaborato e suonato con i migliori della Storia e che, a sua volta, è stato un numero 1 indiscusso ed indiscutibile.

Nonostante la sorte avversa.

O forse proprio mediante e alla faccia della sorte avversa.

Bill Evans Trio – Sunday at the Village Vanguard: 9

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