• Una telefonata ti allunga la vita

Gianni Elsner: un’Aquila libera.

Gran bello spot, quella della SIP.


20 Luglio del 2001.
Un venerdì, afoso e arido come non mai.
Nemmeno un soffio di vento a dar conforto ad un’anima derelitta e sudata.

La sveglia suona talmente presto che il gallo ancora non è andato a dormire, ma il gioco vale la candela.
O, perlomeno, così ero convinto che fosse.

Una giornata che passerà alla storia per i tristi eventi del G8, di Genova.
Io non ero diretto in Liguria, però, bensì nel Lazio.
Dalla Lazio, per meglio dire.
In quel pomeriggio, a Formello, era prevista la presentazione di Gaizka Mendieta: il più forte centrocampista d’Europa -allora, per molti-, chiamato a sostituire Pavel Nedved, da poco burrascosamente trasferitosi alla Juventus.


Quasi 90 i miliardi di vecchie lire messi sul piatto del Valencia dal patron Cragnotti per ingaggiare lo spagnolo.
Si rivelerà un flop allucinante.
Per ragioni caratteriali, ambientali e di natura tattica, soprattutto.
L’aria di Valencia, e forse non soltanto quella, faceva in modo da far apparire fenomeni tutti coloro che in quella fase storica militavano nella compagine iberica.
I fatti diranno altro, purtroppo.

Doccia gelata, ingelatinata di capello, occhiale da sole prorompente, sciarpetta d’ordinanza al collo.
Il saluto agli animali di famiglia, il bacio alla mamma/nonna e l’abbraccio al papà/nonno.
Riti rigorosamente rispettati e via verso il porto, per attraversare il mare ischitano e raggiungere la terraferma.

L’intenzione è quella di giungere a Roma prima di mezzogiorno.
Nonostante la presenza dei grintosi Pendolini della categoria Eurostar, l’alta velocità non è una realtà consolidata agli inizi del nuovo millennio.
Ma un buon Intercity, in ricordo dei tempi del militare, funge adeguatamente allo scopo, evitando l’ignobile trasbordo mediante il regionale o l’appena decente percorso in interregionale.

Nella capitale, anni 2000, vivevo stabilmente.
L’università, la fidanzata e il lavoro, in teoria.
La Lazio, in realtà.


Ho amato alla follia questa adorabile città del cazzo.
L’ho vissuta in una fase di transizione, di cambiamento, di caos.
La mia Roma, per assurdo, era quella degli anni sessanta, settanta, ottanta.
Quella imprevedibile e verace che non ho potuto respirare e quella autentica che ho sempre ricercato nelle sue viuzze, nei suoi sguardi, nei suoi scorci, nelle sue atmosfere, nelle sue magie.
La amo ancora, con malinconica emozione.
Ma non ci vivrei manco con le Victoria’s Secret Angels al completo a girare per casa in cerca di dolci frustate.

A luglio del 2001 abitavo nel quartiere Tuscolano, dalle parti della metro di Re di Roma.
Bei ricordi, davvero.

Ho toppato diverse cose, nella vita.
Non ho mai toppato i luoghi dove ho vissuto, però.
Mai.
Mai.
Mai.
Tutti -dicasi tutti- fottutamente meravigliosi e degni di rievocazione.
Sono un Top di gamma, da questo punto di vista.

E poi Roma significa Lazio.
Avrei bisogno di una Treccani, per tentare di descriverne la Sua importanza nella vita del sottoscritto.
E forse nemmeno basterebbe.

Da Termini a Re di Roma è poco più di uno sputo.
Pochi metri a piedi e sono a casa.
Mi rilasso e accendo la radio, come d’abitudine.

Per me la radio, intesa come strumento di filodiffusione (la Radio da Radioamatore è un’altra storia), è Gianni Elsner.
Lo seguo da anni.

Da Ischia via satellite tramite una parabola di dimensioni cosmiche, istallata con un complesso sistema di motorizzazione per sfruttare il feed-hunting e poi convertita all’utilizzo per Stream TV e Telepiù.
In estate, con una sorta di E Sporadico, pure via diretta, in FM, con la polarizzazione orizzontale delle antenne TV (sul mio scoglio andavano in verticale) che fungevano da esperimenti che di lì a breve sarebbero confluiti con l’ingresso del piccolo sperimentatore nello straordinario mondo Radioamatoriale.

Era destino, insomma.

A Roma ci pensa lo stereo.
Ancor di più il walkman.
Ne colleziono diversi, agli albori del nuovo secolo.
Li posseggo ancora oggi.
Roba che nel 2021 fa tenerezza, ma che nel 2000 era avanguardia purissima.
Investivo anche in auricolari, rigorosamente di marca Sony e/o Sennheiser, con poche eccezioni.
Non duravano molto, sottoposti a pressioni fisiche indicibili ed a condizioni disumane d’uso.
Oggi dico: grazie, bluetooth.


Quella mattina chiamo Gianni, in radio.
Radio Radio, per essere ancor più preciso.
Nasce immediatamente un idillio.
La sua sensibilità, la mia passione.
La telefonata dura un boato: lui annulla i classici tempi radiofonici, rimanda la pubblicità, approfondisce il rapporto.
In una quindicina di minuti scarsi si muove da tifoso, psicologo, anchorman, talent scout.
Perché in quel dato momento io rappresento un talento, una rarità: uno che per la sua squadra del cuore va oltre la consuetudine.
Non è un merito e neanche un vanto, intendiamoci.
È però una particolarità, senza dubbio.

Al termine della chiacchierata, che spazia dal calcio alla vita, Gianni mi chiede di lasciare il mio numero in privato, perché a fine anno, intorno agli inizi di novembre, ha intenzione di festeggiare i suoi venticinque anni di radio invitando il presidente della Lazio, Sergio Cragnotti, ed in quella occasione avrebbe piacere di avermi lì con loro, per farmi dare un premio a simboleggiare tutti coloro che amano l’Aquila ed hanno imparato ad amarla pur non essendo cresciuti in un ambiente a Lei favorevole.
Credo -anzi: ne sono sicuro- che quel “premio” fosse dedicato fondamentalmente al Gianni Elsner “intimo”, quello che molti stentano ancor oggi a rivelare.
Tanti ne raccontano le gesta, ne ricordano i pensieri, ne riportano le azioni, ne vantano l’amicizia.

Gianni era un uomo incensato, celebrato, magnificato, esaltato.
Giustamente.
Meritava e merita tutti gli elogi possibili ed immaginabili.
Ma fondamentalmente era un uomo solo, nella sua infinita onestà intellettuale e purezza d’animo.
Solo, in mezzo alla gente.

Ho interagito dapprima con lui e poi con il suo segretario, in un altro paio di circostanze telefoniche.
L’appuntamento era fissato a dopo la stagione, agli inizi di settembre.
Due/tre giornate come ospite in radio, a raccontarsi e raccontarci, prima dell’appuntamento cragnottiano.
Elsner adorava una certa narrazione di Lazio diversa, profonda e raffinata, pur nella sua visceralità.
Pochi filtri, di quelli buoni.
Il protagonista finiva per essere lui, maestro nel tirar fuori tutto ciò -e anche di più- che gli altri avevano da offrire alla causa.
Un artista a tutto tondo, poliedrico e geniale.
Di una sensibilità più unica che rara.
L’ospite era lui, travestito da straniero/padrone di casa.
Fuoriclasse.
Ma, ribadisco, solo.


Dopo l’estate non ho sentito nessuno.
Durante la bella stagione Gianni Elsner ha litigato con Ilario Di Giovambattista, il patron di Radio Radio.
Dopo nove anni d’amore, è arrivata la bufera.
Insanabile, a quanto pare.

Oltre alla solitudine intellettuale e spirituale, ho avuto spesso la sensazione che Gianni avesse l’attitudine di circondarsi di amicizie non alla sua altezza.
Non che esista una graduatoria, in tal senso.
Ci mancherebbe.
Boh, una sensazione.
E non mi riferisco ai Venditti, alle Ferilli, agli Insinna o ai tanti rapporti che intratteneva con il mondo romanista e/o Laziale.
Intendo dire proprio le persone delle quali si circondava maggiormente, ecco.
Ne ho conosciute alcune e con altre ho avuto contatti diretti, come detto.
Non un campione tale da poter giustificare una molto presunta analisi antropologica, eh.
Ma per mio gusto basterebbe già il sopracitato Ilarietto per chiudere la pratica.
Non mi sorprenderebbe scoprire che l’entourage di Gianni e/o quello di Ilario ci abbiano messo il carico, nella diatriba tra i due.

Fatto sta che Elsner passa a Radio Serena e il sottoscritto, dopo un approccio alquanto strambo con il suo staff, evita di disturbare e saluta la compagnia.
Per mio carattere non forzo mai, non prego mai, non chiedo mai.
Sarebbe stata troppa grazia e io, di grazie, non ne ho mai ricevute.
Lo dico senza alcuna forma di pateticità e pure con un certo orgoglio, per non usare il pesante e stupendo termine dignità.


A novembre mi feci del male, dando seguito a quello che coerentemente avevo deciso di fare, ed ascoltai la trasmissione con Cragnotti perché ero convinto che Gianni andasse festeggiato, a prescindere.

L’ho continuato a seguire negli anni, quando passò a Radio Italia Anni 60 e poco dopo a Radio Sei.
Negli ultimi tempi la malattia modificò alcune cose, è inutile negarlo.

Te lo faccio vedere chi sono io, la sua trasmissione, è stata un autentico capolavoro di radio e di vita.
Un faro, una luce scintillante e sorprendente nel solitamente vacuo panorama romano e italiano, in genere.

L’impegno umanitario a favore dei bambini bisognosi, la compartecipazione alla battaglia per i diritti degli animali, le prese di posizione in tante vicende ove altri si guardavano bene dal metterci la faccia, la sua avventura politica.
Una gran bella persona.

Gianni Elsner: un'Aquila libera.

Gli debbo parecchi input.
Gli ho voluto tanto bene.
Gliene voglio ancora.

Non ho rimpianti, no.
Ma avrei voluto ricevere una sua telefonata, come da promessa.
Fu un’estate strana.

Gianni Elsner oggi sarebbe considerato scrauso, ma varrebbe tanto oro quanto pesava.
Molto di più, per essere precisi ed onesti.

In un ambiente Laziale che viene raccontato come disintegrato ma che, in realtà, fa semplicemente schifo.
La ragione è di un’evidenza elementare: la tifoseria Biancoceleste è sempre stata alquanto variegata, di indole multiforme e di carattere prettamente indomabile.
Ne consegue che i confronti non siano mai mancati.
Confronti aspri, il più delle volte.
Per non dire callosi, datosi che non di rado son volati malleoli e bestemmioni, a corredo.
Poi il confronto si interrompeva al fischio d’inizio della partita o al primo segnale di arrembaggio nemico e tutti, ma proprio tutti, erano uniti dall’amore nella difesa del fortino.
Come la Lazio del 74, insomma.
Loro in campo, il popolo dell’Aquila sugli spalti.
E non solo.


Oggi, con i social e con la maleducazione imperante dei guru, degli influencer e dei tuttologi, ogni cosa diventa virtuale ed assume sembianze risibili.
Tutto è simulato, irreale, artefatto, fittizio.
Finto.

Con i forum, sino a qualche anno fa, ancora ancora.
Nel senso che pur essendo piattaforme virtuali a loro volta, alla bisogna sapevano trasformarsi con una certa rapidità in piazze reali, finendo per accorpare tra loro anche caratteri magari incompatibili o, in teoria, non di semplice consolidamento.
E in un modo o nell’altro si remava nella medesima direzione, quando le circostanze lo richiedevano.

Oggi no.
Non più.
Oggi è il Regno del Letame.
E a Roma più di ogni altra parte al mondo.
Ripensando alle inarrivabili basi storiche ed estetiche di partenza, è inevitabile farsi prendere dal magone.

Caro Gianni, di certo non stai assistendo a questo scempio.
Negli ultimi tempi eri circondato di letame pure te, a dirla tutta.
La maledetta malattia, la comprensibile debolezza che ne consegue, la convinzione -farlocca, perdonami- che in guerra servano tutti i soldati.
E invece no.
Servono quelli valorosi: altrimenti è meglio perderle, le guerre.
Si ha il terrore di ammetterlo, perché suona da deboli.
Ma è così.
Una sconfitta onorevole è meglio di una vittoria disonorevole, diceva qualcuno.

Io ti penso spesso, comunque.
Cannavaro non lo abbiamo preso, alla fine.
Ne parlammo per quasi mezzora, in quella prima telefonata che scombinò tutti i piani di giornata.
Con Nesta avrebbe formato una coppia perfetta, certo, per quanto c’era anche Sinisa e, di lì a breve, sarebbe arrivato pure Stam.
Eravamo uno squadrone, hai voglia.

Sebbene per noi due poco cambiasse, ad onor del vero.
Avevamo imparato ad amarLa a prescindere da chi scende in campo a rappresentarne le gesta.
E di chi è in tribuna a decantarne il presunto possesso.

In fondo è Nostra.
E nessuno meglio di te sapeva spiegarlo, raccontarlo, illustrarlo.


Manchi.
Come detto, nel 2022 saresti uno scrauso: additato come un coglione, un idealista, un fesso.
Pur rimanendo un faro, s’intende.
Tuttavia sarebbe bello averti ancora qui.
Qui.
Non lì, eh.
Qui.

Resta il fatto, inemendabile, che mi rode un po’ il culo per non aver ricevuto quella telefonata.
Con Sergio, poi.
Il Presidente.
Sergio Cragnotti.
Mi emoziono solo a scriverne il nome e, quando fu, ti spiegai bene il perché, oltre all’ovvio.

Una telefonata ti allunga la vita, quando non te la cambia proprio.
Vabbè, sarà per la prossima.


Ciao, Gianni.
E sempre Forza Lazio!

V74

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