• 1988

Johnny Hates Jazz – Turn Back the Clock

Da qualche giorno è in uscita il nuovo album del duo Johnny Hates Jazz, “Wide Awake”.
Il singolo in rampa di lancio (Spirit of Love) non è affatto male e suona molto 1988, quando sulle scene apparve l’allora quartetto JHJ con “Turn Back the Clock”.
Oggi sono rimasti appunto in due: Clark Datchler, voce, immagine, autore dei testi, produttore, polistrumentista e, soprattutto, fondatore ed anima del gruppo.
E Mike Nocito, bassista e collaboratore storico dell’altro.
Hanno abbandonato da tempo sia Calvin Hayes, batteria e tastiere, che Phil Thornalley, produttore del lavoro in oggetto e più tardi, per un breve periodo, sostituto di Datchler come frontman della band.


Turn Back the Clock è un disco di ottima fattura, rappresentativo di un periodo nel quale si faceva musica seria.
Quella dei JHJ è glam, elegante, per alcuni versi forse sottostimata.
Perché dietro l’aspetto giovanile e sbarazzino si cela una penna profonda, attenta, penetrante.
Datchler scrive bene: testi intensi, malinconici e sognanti.
Un cantore elegiaco eppure speranzoso, con un occhio ancorato al passato, tratteggiato con lo sguardo sognante dell’adolescenza, e l’altro proteso al futuro, nella convinzione che qualcosa di bello possa accadere in ogni istante.
Il presente è una via di mezzo per raccontarsi attraverso la memoria e scoprirsi mediante il sogno.


Che talvolta può trasformarsi in disincanto, delusione, illusione.
Come in “Shattered Dreams”, che divenne un singolo di enorme successo e che finì per essere il pezzo trainante dell’album, mettendone involontariamente in disparte altri di altrettanto -se non maggiore- valore.
“(Me and My) Foolish Heart”, drum machine e flashback spirituali, fu il primo estratto, lanciato in netto anticipo rispetto alla pubblicazione dell’intera opera e mesi prima del succitato pezzone da radio.
Un brano leggero, ritmato, energico.
Seguì a ruota “I Don’t Want to Be a Hero”, testo impegnato e melodia e romanticismo che si muovono all’unisono lasciando un velato retrogusto di malinconia.
“Turn Back the Clock”, la title track del disco, è una canzone emozionante e nostalgica che riscosse e riscuote tutt’ora un ragguardevole apprezzamento.
“Heart Of Gold”, lanciato come quinto singolo, racconta una storia delicata ed imperfetta con tatto e cifra stilistica egregia.
“Don’t Say It’s Love”, ultimo estratto dell’album, non abbisogna di eccessive specifiche sull’argomento trattato.


Oltre ai singoli vi sono altri quattro pezzi che, a mio parere, non sono affatto inferiori ad essi, anzi.
“Different Seasons” è un meraviglioso e commovente viaggio in una ipotetica macchina del tempo settata nella direzione preferita dal cuore.
“Don’t Let It End This Way” punta sulla batteria e sull’armonia del cantato.
“Listen” è piuttosto mielosetta, per i miei ben poco pazienti padiglioni auricolari suona troppo Sanremo Giovani, eppure nel contesto possiede un suo perché.
“What Other Reason” è un manifesto musicale di come si possa comporre un brano da piano bar senza scadere necessariamente nella insopportabile sudorazione testicolare.

1.Shattered Dreams
2.Heart Of Gold
3.Turn Back The Clock
4.Don’t Say It’s Love
5.What Other Reason
6.I Don’t Want To Be A Hero
7.Listen
8.Different Season
9.Don’t Let It End This Way
10.Foolish Heart


ABC, Frankie Goes to Hollywood, The Cars, Human League, Spandau Ballet, Duran Duran. Level 42, Blow Monkeys, Love and Money, Simple Minds, Tears for Fears, Pet Shop Boys, Living in a Box, Curiosity Killed the Cat…
Vi sarebbero parecchie corrispondenze, benché alcuni siano nomi un tantino altisonanti, nei paragoni, e loro siano Johnny Hates Jazz ed in fondo va bene così, altroché.

Mi sbilancio, tanto i commenti li apprezzo e li discorro privatamente: questo è uno dei migliori dischi degli anni 80.
Non è un capolavoro, questo no.
Ma è un discone.


Prodotto perfettamente, suonato divinamente, scritto ottimamente.
E ricco di passione e perfezionismo.
Finanche eccessivo, guarda che ti dico, amico/amica che leggi.
Cosa manca?
Secondo me una buona dose di paraculaggine.
Per quanto vi sia un palese proporsi fashion che parte dalla copertina e continua nel sound, nonostante la casa discografica abbia astutamente chiamato in causa stimati professionisti del settore per dirigerne i video (Fincher, Grant, Sena, etc.) e curarne l’immagine, malgrado la collaborazione di valenti musicisti che la metà sarebbero bastati a fare due guerre, a dispetto della fortuna di avere ogni tassello al posto giusto (chicca: Kim Wilde è una delle voci presenti nei cori), quantunque ogni più infimo dettaglio sia stato curato maniacalmente, beh, Clark e soci erano (e credo siano ancora) troppo poco stronzi.
Oppure esageratamente autentici.
Scarseggia quel pizzico di puttanaggine etica che non di rado porta determinati artisti a sfondare, piuttosto che essere sfondati.
Fa difetto, sempre a mio parere, quel tocco di bonovoxaggine senile/merdosa che -purtroppo- nello squallido mondo discografico rischia spesso di fare la differenza.

There is a face deep in your mind

One that your heart won’t leave behind

Memories are cold-empty of laughs

And all that remains are photographs

When she’s gone there are no reasons

Nature’s cruel – it’s just different seasons

Going on and on

There is a voice deep in your soul

Telling you not to lose control

And day after day you hold back the tears

‘Cos pain is the greatest of your fears

When she’s gone there are no reasons

Nature’s cruel – it’s just different seasons

Going on and on

There are no reasons

Say it’s only different seasons

-Different Seasons-

Synth pop intramontabile, con sfumature funky e tappeti acustici patinati.
La voce di Datchler è perfetta per lo scopo.
Visto che ai tempi sfondarono ovunque ed ebbero un discreto apprezzamento pure in USA -cosa per pochi intimi-, sarebbe bastato comporre qualche canzonetta e tirare avanti campando di rendita.
Invece, a conferma di quanto sopra, il nostro se ne andò per i fatti propri pubblicando un disco che manco la lirica, intimista e sofisticato, che vendette una ventina di copie, familiari inclusi.

Turn Back the Clock è davvero un magnifico LP.
Lo ascolto mentre mi diletto a raccontarne la prosa e mi beo.


L’epoca dei sintetizzatori è distante, ma il suono del vinile è talmente moderno da apparire quasi irreale.
Bellissimo, leggero e struggente allo stesso tempo.
Nel 2018, per festeggiare il trentennale, è comparsa sul mercato una ristampa con remix, bsides ed altro a corredo.
Son curioso di ascoltare per intero il loro nuovo lavoro (Agosto 2020).
Per ora, e con estremo piacere, mi rituffo negli adorati 80.
Talento, ispirazione, estro.
Bei tempi.

Johnny Hates Jazz – Turn Back the Clock: 8,5

V74

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