• Pluripremiato

Parasite

Pluripremiato, eccome.

E meritatamente.

Parasite.

Mai a pensare di vederlo sotto casa, confesso: per fortuna un paio di atroci merdosità popolari di recente esposizione hanno potuto finanziare la messa in opera di questo piccolo capolavoro di matrice asiatica.

Per essere venerdì -e per la tipologia di film- la gente non manca affatto, incluso un bel gruppetto di amici/che che mi fa gradevole compagnia durante la proiezione.

Con la Corea del Sud, patria del regista e dell’opera, ho sviluppato di recente un rapporto intenso: unico caso nella mia vita, per ben tre volte sono stato costretto, mio malgrado, a rimandarne la visita.

L’ultima poche settimane or sono ed in totale anonimato, ormai il mio orgoglioso marchio di fabbrica: in entrambi i primi due casi non per mia scelta/colpa, come da abituale copione, per essere in tema.

Mi piace sottolinearlo nella speranza che risulti scaramanticamente utile farlo, forse.

Nel terzo manco è dipeso da me, per essere precisi, ma quantomeno avrei potuto forzare la mano alle avversità e comunque le motivazioni della rinuncia -anzi: rinvio- sono risultate essere più “digeribili”.

Poco male: sopperirò alla fastidiosa questione entro l’anno, se ancora campo e se il destino vorrà concordare.

Al di là di ciò, il rapporto resta: è un paese sicuramente particolare, complesso, ricco di spunti e di anime e sorprendente, sia nella teoria che, ne sono certo, anche nella pratica.

Questo lungometraggio lo rappresenta e, a suo modo, lo dimostra: il regista è un nome noto nell’ambiente, se è vero che ne ho sentito parlare pure io.

Fare incetta di premi non sempre è sinonimo di qualità recitativa e organizzativa: in questo caso, però, i valori complessivi sono davvero eccelsi.

Parasite

A fine ripresa la sensazione è che forse l’Oscar come miglior film sia tanta roba, nel senso che a caldo -e premettendo che l’Oscar lo hanno dato pure a cose indicibili- non pare di aver avuto a che fare con una indimenticabile perla della Storia della Cinematografia Mondiale.

E dopo qualche ora, l’impressione resta identica, quantunque si rafforzi, allo stesso tempo, la convinzione che il film sia notevole.

Un controsenso, me ne rendo conto.

Ma logico, per così dire, perché si assiste ad un saliscendi emozionale che premia l’emotività in gioco e sorprende, questo si, per tutta e dicasi tutta la durata del lavoro.

Le interpretazioni sono magistrali e magistralmente dirette, la sceneggiatura geniale, la colonna sonora elegante (incredibilmente anche il mitico Gianni Morandi ha il suo perché), la scenografia perfetta.

La trama è genialoide, schizofrenica, inconsueta.

Mi ha colpito il parallelo visivo, voluto e squisitamente ricercato, tra la finestra urinata dello scantinato dove abita la prima famiglia protagonista, la finestra clamorosa dove vive la seconda e la finestra inesistente dove vegeta la terza.

Un tris di mondi diversi, completamente separati l’uno dall’altro, che finiscono per miscelarsi, inglobarsi, agglomerarsi e contorcersi in un groviglio di inizialmente divertenti, poi alquanto grottesche ed infine dolorosissime lamiere, alla perenne ricerca del significato/senso della vita ed all’altrettanto risposta perculeggiante del Fato, ossia che un significato/senso -la vita- non ce l’ha affatto, come direbbe il buon Vasco.

Cinico, brillante ed acuto, Parasite confonde scientemente i piani sociali con quelli sequenza, inscenando trame apparentemente impossibili ma che nel 2020 costituiscono l’ordinaria follia del quotidiano e che quindi, nella mente dello spettatore, si trasformano in realtà. essenza, visione.

Un delirio onirico e, contemporaneamente, un inno alla concretezza, alla provocazione, alla riflessione.

Commedia, thriller, drammatico, grottesco: sempre con impeccabile aderenza e perfezione visiva.

L’immagine al servizio del progetto, davvero senza punti deboli.

Aumenta il desiderio di visitare la Corea e pure la curiosità sul cinema asiatico, generalmente strambo per gli abituali gusti occidentali ma come per cibo, musica e altre specialità della casa, certamente degno di un approfondimento.

Se non più di qualcuno.

Opera che racconta l’inganno con estrema sincerità, che coinvolge come non mai, che non stanca nemmeno per un centesimo di secondo.

E che ammette, qualora ve ne fosse bisogno, che l’interscambio tra razze, popoli, culture, classi sociali e colori vari è fondamentale per la riuscita di un gran bel film ma, quasi sempre, è destinato alla rovina nella messa in pratica senza dapprima attenzionare adeguatamente e, soprattutto con il dovuto rispetto, tutte le straordinarie e meravigliose differenze tra i mondi spaventosamente diversi che rappresentano le categorie umane.

Che, volente o nolente, esistono.


Raccontarle in maniera garbata e diretta, senza troppi sotterfugi e con la capacità di farle risplendere di luce propria e verità anche nel dramma, è un atto di coraggio mica da poco, seppur astutamente traslato come messaggio di speranza finale con la meravigliosa iperbole della telegrafia (ho sbrodolato, in sala) amorosa tra padre e figlio.

Guarda caso, però, unica ed insindacabile, viscerale, profonda, indissolubile, imperitura continuità tra i popoli, seppur soggetta ad usura e contrasto, come qualsivoglia situazione esistenziale.

E torniamo a Vasco, al caso, al caos, eccetera.

Raccontando Parasite, giusto per smentire quanto affermato poc’anzi, sembra di doverne aumentare i meriti col passare dei minuti.

E ci sta.

Man mano, cadenzandone i ritmi, sconquassando le convinzioni con sottile compiacimento e con placido gusto, come in una rilassante crociera fluviale e come degustando certi vini di pregio, magari accoppiando la prima ai secondi.


Fino all’Oscar e oltre.

Parasite: 8,5

V74

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