• 2020

Nomadland

Finalmente (bis).
Si torna al Cinema, in sala.

Rigorosamente vuota, ma stavolta con parecchie attenuanti:
A: unico orario previsto, 18:30.
B: estate anticipata, sole e mare a profusione.
C: iniziano gli Europei di Calcio e gioca l’Italia.
D: limitazioni Covid.
E: ignoranza, in generale.


Nomadland ha vinto 3 Oscar (film, regia, attrice protagonista), un paio di Golden Globe (film drammatico e regia), il Leone d’Oro a Venezia e parecchie altre cose in giro per il pianeta.

La concorrenza, è giusto dirlo, non è stata spietata.
In un anno allucinante, peraltro.
Il film, secondo me, divide e dividerà parecchio.

Nomadland

Di certo è diretto con buon manico, dal punto di vista squisitamente tecnico.
Ha una fotografia che definire strepitosa è poco: Nevada, South Dakota, California, Arizona e Nebraska fanno parte a pieno titolo del cast e reggono la scena alla grandissima.
Alcuni degli attori non sono propriamente di ruolo, quanto piuttosto veri “nomadi” che prestano anima e volto alla finzione finendo per renderla meno tale di quanto ci si potrebbe aspettare -come logico che sia- da professionisti del settore.

Di contro vi è un approccio troppo manieristico alla questione umana, per mio insindacabile gusto.
Si avverte un certo non so che di artificioso.
Di strumentale.
Potrebbe essere l’ormai immancabile dazio da pagare al mostro del politicamente corretto che purtroppo condiziona anche chi osserva, oltre chi pontifica.
Mea culpa, nel caso.
O una banale furbata da Oscar, perché no.


La protagonista dovrebbe essere una sfortunata eroina dei tempi moderni che dinanzi alle avversità del destino reagisce a modo suo, con indipendenza ed amorevolezza.
Tutto molto bello.
Apparentemente, però.
Solo apparentemente.

Perché volendo scendere in profondità si può notare come in fondo ella inchiodi al lutto del marito, un evento drammatico ma pur sempre facente parte dell’esistenza.
Un lutto che diventa alibi perenne alla mancanza di gioia, ostacolo invalicabile verso l’agognato ritorno alla comoda normalità precedente.
Quando incontra un dolcissimo e disperato cane che è rimasto solo ed avrebbe bisogno di aiuto -seppur con una piccola esitazione dovuta al tempo necessario a calcolare il rapporto costi/benefici- ne rifiuta l’affetto e lo abbandona all’infame destino sotto al cielo in una serata/nottata che si preannuncia tra le più gelide dell’anno.
Non ama/non comprende/non condivide/non stima il classico ambiente da casa del mulino bianco, ci sta.
Altroché se ci sta.
Peccato che una volta a corto di denaro non esiti a bussare alla porta della sorella che, nonostante il fastidiosissimo odore di carrierismo e convenzionalismo, in realtà si pone nei suoi riguardi con una disponibilità infinita e le si mostra, unitamente agli altri componenti del gruppo, con una naturalezza che l’altra è capace di esprimere soltanto quando si tratta di cagare all’aperto (capita spesso) o recuperare a gratis qualche oggetto utile per il suo camper/casa (capita spessissimo).

Per non parlare del come si confronti con l’unico uomo disposto a concederle un barlume di sentimento: un’occasione di ripartenza, probabilmente dettata dalla solitudine di lui che, però, è talmente coraggioso da voler provare a fare il padre, il marito e tutto ciò che si era ormai convinto di non essere più in grado di sognare.
Lei lo incita quasi per gioco e, dopo averlo testato da Natale a Santo Stefano, lo abbandona con aria scocciata perché la libertà di cagare all’aperto, bisogna riconoscerlo, è un piacere irrinunciabile, soprattutto se paragonato ad un palloso pranzo americano in famiglia nel Giorno del Ringraziamento o ad un pomeriggio passato a tenere tra le braccia il nipotino di turno.


La libertà di fottersene delle libertà, fino a non possederne alcuna e rimanere schiavo della mancanza.

Un film non dovrebbe scatenare giudizi morali, per quanto la teoria che nessuno avrebbe il diritto di giudicare il cammino altrui si areni già sulle medesime basi del ragionamento in essere, poiché il giudizio di un giudizio è a sua volta un giudizio.

La mia impressione è che la figura della protagonista, scialba e contingente, finisca per essere un inno alla mestizia, alla debolezza, all’opportunismo, allo squallore e all’egoismo.
Oltre a questo, in un dialogo breve ma intenso, la sorella le ricorda che sin da bambina ella si comportava in maniera stramba e le confessa quello che l’altra manco in venti vite avrebbe mai fatto: cioè che le è mancato avere sua sorella accanto, per gran parte dell’esistenza.
Egoismo pure questo, senza dubbio.
Ma quantomeno pregno di una forma di emozione tribale, quella che invece -a parer mio- manca completamente alla piatta ed inconsistente figura centrale del film.
Per non dire al film nella sua interezza.
Il pathos, quello autentico.

Nomadland

Ad originare il progetto Nomadland è stato un articolo d’inchiesta di una giornalista statunitense che ha successivamente scritto un libro, su questa esperienza.
Dal libro si è sviluppata l’idea di trarne un adattamento cinematografico che la brava attrice Frances McDormand -produttrice e dominatrice incontrastata dinanzi alla macchina da presa- ha voluto affidare alla altrettanto brava regista Chloé Zhao, talento che avrebbe voluto studiare in Italia ma che il padre -parole sue- obbligò invece a vivere in UK tra i paffuti tracagnotti d’oltremanica, per non rischiare che si potesse innamorare di un affascinante ragazzotto tricolore.
Il razzismo dove il mondo vede ironia.
E l’ironia dove il mondo vede razzismo.
Bei tempi.


Tornando in tema: pure la descrizione antropologica del contesto è -sempre per me- eccessivamente edulcorata in relazione al pianeta USA ed anche la surreale immagine di Amazon, che diventa un’oasi dell’allegria e del benessere dei lavoratori.
Beh, siamo francamente ai limiti della decenza.

Idem per la presentazione del mondo nomadistico, una riserva di solidarietà e delicatezza che chiunque ha vissuto dieci minuti sulla Terra sa bene essere quanto di più distante dal vero.

Lo stesso lutto succitato, come tutte le altre avventure umane della protagonista, pare provenire da Marte: non apporta reazioni, non insegna alcunché, non modifica percorsi, non genera cambiamenti, non evolve, non peggiora, non uccide, non vive, non respira.
Datosi che la fabbrica dove lavorava con il marito ha chiuso, lui è morto e la città è stata abbandonata, bisogna spostarsi.
Mica per altro.
Hanno staccato il gas, la corrente, l’acqua.
Tocca sbaraccare, oh: altro che sofferenza, idealismo ed inquietudine.


Lo struggente piano in sottofondo di Ludovico Einaudi accompagna splendidamente la natura circostante e sottolinea la poetica (?) del racconto, a larghi tratti quasi documentaristico, definendo gli sprazzi migliori del lungometraggio, per quel che mi riguarda.

Non ho dubbi sul fatto che molti ne parleranno bene.
Sono altresì convinto che tutti coloro che ne parleranno bene non accetteranno di rivederselo prima dei prossimi 40 anni.

In poltrona si attende la fine, apaticamente, senza farsi sfiorare dal dubbio che ci possa essere passione al di fuori di questo malinconico incedere.
Col culo parato, chiaro.
Sia nella finzione, con la famiglia che non piace a nessuno ma che, qualora ve ne dovesse essere bisogno, coprirà le spese inaspettate e procurerà all’anticonformista di turno un tetto sotto al quale ripararsi.
Sia in sala, dove la critica si sparerà le pippe a quattro mani su cotanto formalismo, ancor di più negli USA del post Trump.


Hai visto mai che il prossimo Oscar non finisca ad un genio che osi riprendere Bezos mentre dona caramelle agli orfanelli dinanzi a qualche mercatino di Natale.
Con un bel “wearebezos” postato ovunque, a sublimare la questione.

La McDormand e la Zhao hanno tenuto a far sapere che per meglio comprendere le dinamiche del nomadismo si sono spinte a vivere in codesta condizione per alcune settimane.
Chissà in quel periodo dove cagavano, queste star hollywoodiane che aprono squarci infiniti sui massimi sistemi filosofici.
La questione, IMHO, è ben più intrigante della pellicola in oggetto.
Che si chiude con un ammiccante “ci vediamo lungo la strada” a sottintendere una strada spirituale che però non c’è, oltre a quella dove far passare il camper e defecare quando il bolide è a punta.

A proposito: felicissimo di essere tornato in sala.
Quanto mi piace, il Cinema.
Quello vero, in poltrona.
Io, che non ho una vita da Premio Oscar e soffro di invidia e frustrazione, ho cagato a casa, in assoluto relax, un’ora dopo la proiezione.
Ho atteso l’intervallo di Italia-Turchia.
Avevo quindici minuti di tempo: e sono bastati.


Nomadland: 5,5

V74

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