- Beto
Juan Barbas
Quando il campionato italiano era il più bello del Mondo, ecco che un calciatore come l’argentino Barbas, forte per davvero, poteva tranquillamente giocare nel Lecce (con tutto il rispetto dovuto, s’intende) e fare la sua bella figura, pur senza avere la possibilità di fare il salto -che avrebbe pienamente meritato e che ha in diverse occasioni sfiorato- in un Top team.
Così facendo si è però ritagliato uno spazio importantissimo nel cuore del popolo giallorosso, che in un recente sondaggio lo ha eletto come miglior calciatore della storia salentina unitamente all’attaccante uruguaiano Chevanton.
Un riconoscimento degno di nota per un giocatore che ha lasciato il segno dal punto di vista tecnico ma anche, per non dire soprattutto, da quello umano.
Procediamo con ordine, come è d’uopo.
Juan Alberto Barbas nasce nell’estate del 1959 a San Martin, zona metropolitana di Buenos Aires, capitale dell’Argentina.
La sua famiglia è numerosa -sette fratelli- e di umili origini: il padre e la madre provengono entrambi dalle zone più nordorientali della nazione.
Si sono trasferiti nella città più importante del paese nella speranza di poter dare un avvenire migliore ai propri eredi.
Juan vive una infanzia dura ma, nel contempo, piena di affetto.
Sono unitissimi, i Barbas.
Da bambino il nostro è un portento col pallone tra i piedi.
D’altronde siamo in una terra che non manca mai di regalare campioni al calcio, bisogna riconoscerlo.
Talento sudamericano e cervello europeo, il piccolo Juan sembra il prototipo del centrocampista moderno.
Il fisico non è eccelso, invero.
I polmoni invece sono ottimi, i piedi pure e la testa non è da meno.
Ci si può lavorare, eccome.
Un amico del padre lo accompagna ad un provino col River Plate.
Cinquecento “piccolini” e solo tre vengono presi.
Juan è uno di loro.
Passano alcuni mesi e nessuno del River si fa sentire.
Cosicché Barbas viene convocato dal Racing Club di Avellaneda, a poca distanza da Buenos Aires, per uno scouting.
Juan non lo sa ancora, ma il papà è un grande tifoso proprio del Racing.
Lavorando tutto il santo giorno, non ha molto tempo per seguire la squadra.
Ma quando qualcuno gli fa notare che il figlioletto pare possedere discrete qualità, ecco che il cuore biancoceleste si gonfia d’orgoglio.
Da qui il godimento irrefrenabile allorquando ha la certezza che il pargolo è ammesso nella cosiddetta Academia, ovvero nel settore giovanile di una società blasonata ed in grado di far crescere l’erede in un ambiente serio e calcisticamente di valore.
Juan Barbas è un ragazzino educato e posato, va detto.
Si fa voler bene e, tra l’altro, in campo si fa rispettare.
Piuttosto tracagnotto, ha temperamento da vendere e rispetto ai suoi coetanei è nettamente più maturo.
Juan Carlos Giménez -il mitico Cacho, ex bandiera ed allenatore del club- lo prende sotto la sua ala protettiva e lo aiuta sia sul terreno di gioco che fuori.
Il giovanissimo Barbas entra ben presto nel mirino dello staff della prima squadra, che lo fa esordire a diciotto anni in Primera Division.
Campionato tosto e, ai tempi, di gran livello.
Juan, soprannominato subito barbitas per via del suo cognome e dell’aspetto da anzianotto, è un calciatore a tutti gli effetti.
E dire che nel biennio precedente per due volte era stato vicinissimo a ritirarsi, ancora prima di iniziare.
Difatti era tornato a casa e si era messo a lavorare come apprendista metalmeccanico, datosi che la sua società di appartenenza era impelagata nella lotta per la salvezza e non aveva dedicato molte attenzioni al settore giovanile.
Richiamato, si era nuovamente allontanato dal Racing, pensando che non vi fosse spazio in rosa per lui e che fosse meglio puntare ad altro, per portare a casa una decente pagnotta.
Cacho Giménez, convinto delle doti del ragazzo, gli aveva procurato una borsa di studio e gli aveva fatto pervenire altri aiuti, per spingerlo a non mollare.
Saggia scelta, in quanto Juan possiede doti non comuni.
Inizialmente è impiegato come ala, poi come centrocampista di fascia ed, infine, come terzino.
Sempre a destra.
Successivamente trasloca a sinistra, per un periodo.
Il mitico Omar Sivori, per alcuni mesi allenatore del Racing, lo sposta in mezzo al campo, sostenendo che un calciatore dalle caratteristiche di Barbas dovrebbe agire nella zona nevralgica del campo, anche a costo di perdersi qualche gol in attacco.
Il Racing Club, pian piano, costruisce una compagine solida e in grado di esprimere ottima qualità.
Non raggiunge i fasti del passato, ma se la gioca con chiunque.
Juan Barbas si mette in mostra e viene convocato dalla Nazionale Argentina che partecipa al Mondiale Under 20 del 1979, che si tiene in Giappone.
Nel ritiro in terra nipponica Juan divide la stanza con un ragazzo che si chiama Diego Maradona.
Un predestinato, che insieme a compagni quali Diaz, Calderon, Simon ed ovviamente Barbas vince la competizione e porta la sua rappresentativa sul tetto del Mondo.
Lo stesso Maradona, durante i festeggiamenti in hotel, lancia Barbas in piscina.
Tutti intorno ridono della scena.
Ad un certo punto, per fortuna, si accorgono che Juan non riemerge.
Lo pescano all’ultimo istante utile prima della Messa, grazie pure all’aiuto di alcuni turisti nipponici, facendogli riprendere aria.
Lui, terrorizzato, spiega ai connazionali di non saper nuotare.
La carriera e la vita di Juan Barbas continuano, nonostante l’enorme rischio corso.

Al ritorno in patria gli argentini vengono ospitati dal dittatore Videla che si congratula col gruppo ed utilizza, astutamente, i giovani dell’Albiceleste per propagandare la presunta bontà del suo operato.
Nulla di nuovo sotto al sole, purtroppo.
Barbas e company sono troppo giovani per intuire i contorni di queste situazioni e Menotti, il loro ottimo tecnico che già ha condotto la Nazionale Maggiore alla vittoria del Mondiale casalingo del 1978, preferisce far buon viso a cattivo gioco, pur limitando l’entusiasmo allo stretto necessario.
Juan, che nel frattempo sta svolgendo il Servizio Militare, è comunque Campione del Mondo Under 20.
Su di lui, centrocampista centrale di forza e sostanza, si posano gli occhi di alcuni intermediari.
Il Racing fa orecchie da mercante per non immalinconire i suoi tifosi, letteralmente innamorati del prospetto locale.
Che nel 1982 è tra i convocati per il Mondiale spagnolo, sempre sotto la guida di Menotti.
L’Argentina perde il match iniziale con il Belgio di Pfaff e Ceulemans (0-1), poi sconfigge sonoramente l’Ungheria di Nyilasi e Sallai (4-1) e chiude il girone iniziale con una ulteriore vittoria ai danni di El Salvador (2-0) di Rodriguez e Huezo.
Nella fase successiva l’Albiceleste è battuta per 2-1 dall’Italia di Paolo Rossi e Zoff e perde anche con il Brasile di Zico e Socrates (1-3).
Si torna quindi a casa, con gli Azzurri di Bearzot che vanno meritatamente a vincere il torneo.

Juan Barbas è riserva di Ardiles: va in campo da subentrante contro l’Ungheria, mentre è in panchina negli incontri con Belgio ed Italia.
Il ragazzo è da tempo pronto per spiccare il volo verso il Vecchio Continente.
Ventiquattrenne, riceve un’offerta dal Real Saragozza poco prima della kermesse intercontinentale.
Spagna, prima divisione.
Squadra discreta, allenata dall’olandese Leo Beenhakker che ha visionato più volte il giocatore e che ne sollecita l’acquisto.
Un intermediario del Saragozza si è recato in Argentina ed ha chiuso l’accordo sia col manager del giocatore, Coppola, che con il Racing.
Juan Barbas firma un accordo pluriennale e vola in Spagna, dove diventa un cardine del suo team e vince, per due anni consecutivi, il premio Don Balón come migliore straniero del campionato iberico.

Il forte attaccante argentino Valdano, il prolifico centrocampista Senor, la valida punta di origini paraguaiane Amarilla e -per un periodo- l’estrosa ala jugoslava Šurjak sono gli elementi più qualitativi del roster, insieme a Barbas.
Nella sua seconda annata in Spagna il buon Juan è allenato dall’italiano Enzo Ferrari, che in estate torna nella penisola e fa il suo nome ad alcuni emissari che trattano per conto di varie società autoctone, alla ricerca di validi profili per il competitivo torneo tricolore.
Barbas finisce nel mirino del Lecce.
Il succitato Ferrari garantisce per lui:
“L’argentino è calciatore vero, da palcoscenici importanti. Prendetelo, non ve ne pentirete“, la sua chiosa.
Il Lecce, appena promosso in serie A per la prima volta nella sua storia, supera una nutrita concorrenza europea ed acquista Juan Barbas, convocandolo per il ritiro estivo.
I tifosi del Saragozza ci restano male: il centrocampista di Buenos Aires è un beniamino del pubblico locale ed incarna alla perfezione la tipologia di calciatore che aizza le felle, col suo carattere sanguigno e la sua indole devota alla causa (maglia).
D’altronde il potere economico del calcio italiano negli anni ottanta è paragonabile a quello inglese odierno.
Per non parlare dell’aspetto “tecnico”: Maradona, Platini, Junior, Rummenigge, Briegel, Elkjaer, Edinho, Brady, Boniek, Passarella, Diaz, Dirceu, Cerezo, Berggreen, Souness, Laudrup ed altri ancora, in ordine sparo.
Zico ha appena salutato la compagnia, sfortunatamente, ma la roba buona non manca di certo.
Ed altra ne arriverà, di lì a breve.
Comunque il Saragozza con i soldi di Barbas prende l’attaccante uruguaiano Ruben Sosa, più tardi alla Lazio e all’Inter: un investimento che porterà in dote una Coppa di Spagna (nel 1986) ed alcuni bei piazzamenti.
Tornando alla Puglia: il secondo straniero del Lecce è un attaccante e connazionale di Barbas, da lui consigliato: Pasculli.
L’ambientamento dei due sudamericani è quindi ideale.
In coppia fanno sognare il popolo salentino, col condottiero Fascetti che invece predica calma.
Oltre a Barbas e Pasculli, ci sono: il grande Barone Causio, il bravo fluidificante mancino Alberto Di Chiara, il grintoso mediano Enzo, l’esperto difensore Danova ed una pletora di mestieranti, ottimi per la B ma forse non adeguatissimi per la A, quantomeno per quel che concerne la maggior parte di essi.
Difatti il Lecce inizia il torneo di massima serie con un ritmo da retrocessione annunciata.
Poi migliora, leggermente.
Ma non si schioda dall’essere fanalino di coda, tornando presto in cadetteria.
Compie un’impresa storica, però.
Nella penultima giornata di campionato va a vincere con la Roma, in trasferta, regalando di fatto lo Scudetto alla Juventus.
Un qualcosa di assolutamente imprevedibile, tanto è vero che a distanza siderale di tempo ancora oggi se ne parla.
Anni dopo lo stesso Barbas, protagonista del successo dei suoi con una doppietta messa a segno durante il match, commenterà a riguardo:
“Quella gara fu assurda. Noi eravamo retrocessi, mentre la Roma era già intenta a festeggiare la vittoria del campionato. Non fummo pagati dalla Juventus, come qualcuno ha sostenuto. Piuttosto giocammo con la mente sgombra dai pensieri e col cuore in campo, datosi che prima della partita avevamo visto scene che non ci erano affatto piaciute. Tutti si comportavano come se noi fossimo lì per caso. Addirittura fu organizzata una parata col sindaco, come se il torneo si fosse già concluso. Nessun rispetto per gli avversari e nessuna minima preoccupazione di quello che sarebbe potuto accadere. Ecco, questo ci spinse a dare il cento per cento. Mi raccontarono che un paio di anni prima all’Olimpico, per la finale di Coppa dei Campioni tra Roma e Liverpool, si erano viste le medesime scene. Con identico esito. Evidentemente nell’ambiente romanista non avevano imparato la lezione“.
Severo ma giusto.
In effetti i giallorossi della capitale si sono suicidati dinanzi ai giallorossi pugliesi, senza che questi ultimi potessero far molto.
Juan Barbas, in estate, riceve diverse proposte per traslocare altrove.
Lo cercano Como, Avellino, Udinese e Torino.
Quest’ultima, in particolar modo, è vicina al calciatore argentino.
Le vie del calciomercato sono infinite, è cosa nota.
Ad un certo punto è un’intervista di Maradona a smuovere le acque.
“Il Napoli è forte, ma per ambire a vincere lo Scudetto ci manca ancora qualcosa. Un regista di centrocampo, ad esempio. Dobbiamo sostituire Pecci e l’ideale sarebbe il mio amico Barbas. Eraldo è intelligentissimo dal punto di vista tattico, ma Juan è più rapido. Col Lecce in B, potremmo prenderlo tranquillamente“, le parole del Pibe de Oro.
Il quale, per inciso, è da poche settimane diventato Campione del Mondo.
La sua Argentina, infatti, ha vinto il Mondiale in Messico.
Barbas ha sperato sino all’ultimo di far parte della spedizione albiceleste, pure sull’onda del bel campionato disputato con la maglia leccese: ma il Commissario tecnico dei sudamericani, Bilardo, non lo ha inserito nella lista finale.
Qualcuno maligna che il rapporto di Juan col leader Maradona non sia propriamente idilliaco.
Lui smentisce ed in effetti l’intervista di cui sopra parrebbe dargli ragione.
“Maradona è un fratello, per me e mi vorrebbe portare al Napoli. Siamo cresciuti insieme e veniamo dallo stesso tipo di Mondo. Nessuno più di lui può capirmi a fondo e viceversa. Con Bilardo non vi è grande sintonia, sebbene mi abbia convocato durante le partite di qualificazione al Mondiale, Poi il mister ha semplicemente ritenuto opportuno fare altre scelte ed io le rispetto, anche se vi è un bel po’ di amarezza, inutile negarlo. Sarei stato Campione del Mondo, se mi avesse chiamato. Ma quella telefonata non è mai arrivata ed io non sono uno che chiede, che si propone, che sollecita. Io aspetto, in silenzio. Spero, senza pretendere. Sono fatto così“, le parole di Juan.
Il Napoli lo tratta a lungo, quindi lascia cadere la pista.
Ad ottobre vira su Romano, acquistato dalla Triestina.
Sarà la scelta perfetta, in quanto il club campano andrà a vincere lo Scudetto a fine stagione.
L’uomo giusto al posto giusto e nel momento giusto, quindi.
Pagato due spicci, oltretutto.
Perché i napoletani, per Barbas, avrebbero invece dovuto sborsare bei denari.
Il Lecce non intende privarsene a cuor leggero, si è capito.
Ed alla fine della fiera l’argentino resta in Puglia, in cadetteria.
Sotto la guida di Pietro Santin, i giallorossi provano a riconquistare il massimo livello del calcio italiano.
Barbas e Pasculli sono le punte di diamante di una compagine solida, che annovera tra le propria fila anche lo sgusciante attaccante Tacchi, il fantasioso centrocampista Agostinelli, il tecnico rifinitore Panero ed altri elementi di valore per la categoria.
Il Lecce, che a stagione in corso sostituisce Santin con Mazzone, arriva a giocarsi la serie A agli spareggi, dopo aver conquistato la terza piazza in coabitazione con Cesena e Cremonese.
Pareggio a reti bianche col Cesena e vittoria per 4-1 con la Cremonese.
I romagnoli battono i lombardi per 1-0 e così sono loro a giocarsi la finale col Lecce.
Il risultato finale è favorevole ai nordici.
Cesena-Lecce 2-1 e bianconeri che sbarcano in A.
Juan Barbas salta per squalifica la gara decisiva ed è un’assenza che pesa tantissimo, nello scacchiere mazzoniano.
Si riparte l’annata successiva, con Mazzone che chiede la conferma di Barbas e Pasculli e l’acquisto di alcuni giocatori di spessore per la cadetteria (Terraneo, Baroni, Limido, Vincenzi).
Il Lecce fa il suo, con Juan leader e Pasculli bomber, e torna in A, chiudendo da secondo in graduatoria dietro al Bologna e dinanzi a Lazio ed Atalanta, anch’ esse promosse in virtù dell’ampliamento della serie maggiore da sedici a diciotto squadre.

Juan Barbas, che dopo una trentina di gare ed un rapporto man mano divenuto burrascoso col C.T. Bilardo ha chiuso oramai definitamente il suo rapporto con la Nazionale Argentina, ritorna sul palcoscenico che maggiormente gli compete.
E lo fa nel migliore dei modi, trascinando il suo Lecce ad un ottimo nono posto finale in classifica.
I pugliesi, tosti e concreti, danno del filo da torcere a chiunque.
Mazzone è bravissimo nel creare un gruppo forte e coeso, in cui Barbas è indiscutibilmente il fulcro del pianeta giallorosso, oltre che il capitano del suo team.
Tra l’altro, poco prima dell’inizio del torneo, è nuovamente vicino al Napoli.
I partenopei trovano l’accordo con Lecce e con Juan prima di cambiare idea e prendere il brasiliano Alemao, omologo del giocatore argentino.
Niente maglia azzurra, anche stavolta.
Centrocampista completo, dal baricentro basso ma tremendamente risoluto ed efficace.
Numero 8 per eccellenza, in grado di assumere compiti di regia, dettando i tempi della manovra, e nel contempo capace di offrire adeguata protezione alla propria difesa, da metronomo e da volante con compiti di interdizione ed organizzazione di gioco.
Polmoni, cervello, cuore: l’identikit del perfetto centrale di metà campo, per intenderci.
Gran visione di gioco e discreta tecnica individuale con entrambi i piedi, oltre ad un tiro dalla distanza secco e preciso, che spesso non lascia scampo agli estremi difensori avversari, anche da fermo.
Eletto miglior straniero della Liga nei suoi anni spagnoli (nonostante la presenza di gente come Maradona, Stielike e Schuster, per citarne qualcuno) e menzionato abitualmente tra i calciatori di maggior rendimento di un campionato italiano che ai tempi era clamorosamente pregno di qualità, Juan Barbas è giocatore che incarna il prototipo del centrocampista moderno, apprezzato dai suoi tecnici per l’affidabilità e la bravura sul manto erboso ed adorato dai tifosi per la grinta che mette in campo e per l’attaccamento alla maglia che indossa.
Veloce di testa e di gambe, ogni tanto si smarrisce a livello di continuità e, non di rado, incappa in qualche infortunio di natura muscolare.
Nulla di che, in relazione a quello che porta in dote.
Avrebbe meritato una chance in una squadra di vertice, a parer mio.
E dire che l’ha sfiorata, nel Napoli di Maradona.
Non era destino, evidentemente.
Beto, come lo chiamano i tifosi del Lecce, si ferma nel Salento per una ulteriore annata che, con l’ex milanista Virdis a rinforzare i giallorossi, si chiude con la sofferta salvezza ottenuta dagli uomini di Mazzone.
Quest’ultimo viene quindi sostituito da Boniek, che era in campo con la maglia della Roma nella famosa gara del 1986 di cui abbiamo raccontato in precedenza.
Sarà una coincidenza, certo: fatto sta che il polacco punta sul sovietico Alejnikov e sul brasiliano Mazinho come stranieri per affiancare Pasculli.
Per Juan Barbas, in rotta con la società di appartenenza, è la fine della sua avventura leccese.
L’argentino lamenta una trattamento irrispettoso della sua militanza in terra pugliese.
A trentuno anni vorrebbe provare una esperienza in un club importante, ma sarebbe anche disposto a rimanere dinanzi ad una proposta di prolungamento contrattuale.
Il Lecce si fida invece di Boniek, ex grande calciatore ma allenatore impresentabile, e va incontro ad una bruciante retrocessione.
Juan Barbas viene proposto al Monaco, in Francia, dal suo manager Caliendo.
Poi lo stesso Caliendo muove diversi calciatori come il presidente Borlotti nell’Allenatore del Pallone e Barbas si ritrova, delusissimo, fuori dai giochi.
Nel calciomercato autunnale del 1990 firma quindi per il Locarno, serie B svizzera.
Una bella auto, una villetta niente male e centoventi milioni di lire per un anno nel Canton Ticino, a giocare insieme ad operai, impiegati di banca, postini, banconisti e chi più ne ha più ne metta.
Dinanzi a platee composte da pochissime unità ed in un clima che non è propriamente quello del Meridione d’Italia.
Senza la sua famiglia, stabilitasi a Lecce.
Barbas, professionista serissimo, si fa il segno della croce e si tuffa nella seconda divisione elvetica, portando il Locarno a vincere il suo girone.
Bisogna combattere anche nel girone finale, però, ove il club ticinese non riesce a centrare l’obiettivo, pur sfiorandolo.
In estate i giornali scrivono di un Juan Barbas vicino al ritorno in Italia.
L’Ascoli di Rozzi, neopromosso in serie A ed affidato al tecnico De Sisti, è in cerca di stranieri a basso costo e dal buon rendimento.
Barbas è un’idea proprio di Picchio De Sisti, ma i marchigiani si tirano presto indietro.
“Ha trentadue anni ed è andato a svernare nella seconda divisione svizzera. Se non è bollito lui, chi altri?”, la netta chiusura dei dirigenti ascolani.
Che virano sul belga Vervoort e sull’ex Laziale Troglio, per rinforzare il proprio centrocampo.
Non basteranno ad evitare la caduta negli inferi della cadetteria, a fine stagione.
Juan Barbas si accorda invece col Sion, nuovamente nel calciomercato autunnale.
Resta quindi in Svizzera, ma passa in massima serie e contribuisce al primo campionato vinto dalla compagine del Canton Vallese.
I biancorossi, vincitori l’anno precedente della Coppa di Svizzera, giocano anche la Coppa delle Coppe, spingendosi sino agli ottavi di finale, eliminati solamente ai calci di rigore dagli olandesi del Feyenoord.
Insieme a Barbas ci sono i connazionali Calderon (ex compagno nella Under 20 Campione del Mondo e nella Nazionale Maggiore dell’Argentina) e Clausen (anch’egli in Nazionale Maggiore).
Un’impresa che il Sion festeggia investendo sul mercato brasiliano, prelevando diversi elementi che, giocoforza, riducono gli spazi in rosa.
Juan Barbas ritorna al Locarno, ritrovando l’amico e connazionale Costas, che ne aveva sponsorizzato l’ingaggio due anni prima.
Insieme riprovano a trascinare il Locarno in prima serie, senza riuscirci.
Nel 1993 il nostro Juan decide di lasciare l’Europa e di tornare in patria, firmando per l’Huracan di Buenos Aires ed andando a sostituire un’altra vecchia conoscenza del calcio italiano, alias Patricio Hernández, ex Torino ed Ascoli.
Pochi mesi in prima serie, poi il passaggio al Club Atlético Alvarado per un anno e quindi l’ultima tappa della carriera, un triennio al Club Atlético All Boys nelle serie minori argentine.
A trentotto anni Juan Barbas annuncia l’addio al calcio e sogna di diventare allenatore.
Inizia dal Racing, casa sua, lavorando con i giovani e facendo venir fuori una pletora di ragazzi di valore.
Si merita così l’occasione di guidare la prima squadra.
Dura poco ed ancora meno un paio di anni più tardi, nella medesima situazione di subentro.
Le cose non vanno meglio al Club Olimpo, che allena per un breve periodo nel 2016.
Ritorna a lavorare con i giovani ed in alcune società nel distretto della capitale, ritrovandosi disoccupato durante la pandemia del 2019.
Con l’anziana madre a carico, un fratello morto proprio a causa della pandemia e un matrimonio naufragato con l’ex moglie Adriana, che gli ha dato tre figlie.
Una delle quali ha come madrina Claudia Villafane, ex consorte di Maradona.
A conferma dell’indissolubile rapporto tra Juan ed il fuoriclasse argentino.
Diego? Il più forte di sempre. Un calciatore geniale ed un ragazzo d’oro, che molti dipingono diversamente da come era davvero, purtroppo. Avrei voluto essere insieme a lui nel 1986, in Messico. Un rimpianto enorme, che mi porto dentro. La mia carriera è stata comunque bella, con la parentesi di Lecce che è indimenticabile. Mi sarebbe piaciuto giocare in un top team, questo sì. Si è parlato di Napoli, Monaco ed alcune squadre tedesche, per qualche tempo. Ma il destino aveva in serbo altri piani per me, evidentemente.
Juan Barbas
Con dignità e forza Juan si è reinventato in alcuni lavori fuori dal calcio.
Lui che ha speso i soldi guadagnati col pallone acquistando una casa ai genitori ed un appartamento per la moglie e le figlie.
Un’altra casa, a Saragozza, l’ha dovuta vendere per ripianare alcune situazioni debitorie, alcune delle quali risalenti ad investimenti sbagliati fatti anche ai tempi di Lecce.
“Il calcio odierno è diverso dal mio. Si guadagna molto e si cambiano maglie come mutande. Oggi ci sono edifici, ove un tempo vi erano pascoli. Inoltre da giovane devi pagare tu per giocare, in molti casi. Ma come si fa?“.
Beh, non ha tutti i torti.
Anzi: ha proprio ragione.
Ricordo bene Juan Barbas, uno dei migliori centrocampisti centrali degli anni ottanta.
Ho memoria anche della sua figurina al Mondiale del 1986, il più bello di sempre, al quale ha finito poi per non partecipare.
Una stranezza, come strana è anche quella partita tra Argentina e Napoli giocata nel marzo dello stesso anno, proprio in preparazione al Mondiale di cui sopra, nella quale Juan indossò la casacca dei partenopei per “rimediare” alla mancanza di Maradona, naturalmente presente con la maglia albiceleste.
Proprio una beffa, la storia tra Barbas ed il Napoli.
Una beffa fu anche quella subita dalla Roma, un mesetto più tardi, con l’argentino a decidere lo Scudetto in favore della Juventus.
Come detto, lì fu più un suicidio degli uomini di Viola che altro.
Però resta impressa, quella giornata.
Altroché.
Riordinando in cantina, giorni fa, ho ritrovato uno dei miei tanti “quaderni calcistici” dell’epoca, con Barbas inserito in quasi tutte le formazioni delle squadre di medio-alto livello che, nella mia fantasia, ero intenzionato a potenziare in vista della successiva annata.
Avevo una dozzina d’anni o poco più.
Ma ero già Direttore Sportivo in pectore di mezzo calcio italiano.
E da lungo tempo.
Che spettacolo!
Tornando a noi: oggi Juan vive in Italia.
Nei dintorni di Lecce, ovvio.
A poca distanza dall’amico Pasculli.
Allena i piccoli della Scuola Calcio dell’Atletico Racale e collabora con la società pugliese, che milita in Eccellenza.

Beto è tornato a casa, insomma.
Era destino.
In questo caso assolutamente sì, senza alcun dubbio.
Juan Barbas: Beto.
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